La LUCANICA di Picerno.

Storia, localizzazione ed economia del prodotto, di Ettore Bove (Docente di Economia dei prodotti agroalimentari tipici e di Economia e gestione del tempo libero nelle aree interne all’Università degli Studi della Basilicata).

Tra i diversi prodotti che si ricavano dalla lavorazione della carne di maiale, la classica “salsiccia” si colloca, sotto il profilo prettamente economico, a qualche gradino più sotto del prestigioso “prosciutto” e dei suoi ben più costosi derivati ottenuti dalla coscia disossata.
Come prodotto ottenuto pressando in intestini accuratamente puliti della carne suina, più o meno magra, opportunamente triturata e salata, la salsiccia costituisce l’emblema del variegato mondo degli insaccati. Questo tipo d’insaccato è molto probabilmente uno dei primi prodotti d’origine animale ad essere associato al territorio d’origine. E’ Marco Terenzio Varrone, vissuto nel I secolo a.C., che, in uno dei libri dedicati a Cicerone, nell’opera linguistica “De lingua latina” fa riferimento, per primo, ad un tipo di salsiccia fatta con l’intestino crasso del maiale chiamata dai soldati romani luganica perché l’hanno imparata a fare dai Lucani, gli abitanti della Lucania, l’antica circoscrizione territoriale romana estesa ben oltre l’attuale Basilicata.
L’insaccato doveva essere davvero buono al palato dei soldati, se nello stesso periodo Cicerone ne parla con spirito nostalgico. Al tempo di Varrone il salame di origine lucana sembra però non andare oltre gli interessi degli scopritori. Il modo di conservare la carne di maiale dei lucani, infatti, non sconvolge la prelibata gastronomia romana dell’età imperiale che, come testimoniano il naturalista Plinio ed i poeti Orazio e Marziale rimane fortemente legata, almeno per quanto riguarda il porco, alla carne fresca ed alle parti intime della scrofa. Gli ingredienti usati dai lucani per preparare la luganica si trovano nel trattato d’arte culinaria “ ”, una pluralità di testi attribuiti al gastronomo romano Apicio vissuto un secolo dopo Varrone. Va sottolineato che la luganica descritta nel ricettario apiciano ha poco a che vedere con l’analogo insaccato di oggi. Apicio descrive la preparazione dell’insaccato elencando i “condimenti” che assieme a della “carne ben macinata” e ad “abbondante quantità di grasso” riempiranno ”un budello lungo e molto sottile che si sospenderà così al fumo”. La rivoluzione in salumeria inizia sicuramente dopo il Cinquecento, quando arriva dall’America il peperone.
Ai tempi di Varrone, la Lucania, che nel suo significato tradizionale richiama l’esistenza di territori coperti da boschi, è già in buona parte caduta sotto l’impero Romano. Prima dell’avvento dei Romani le pianure costiere erano state colonizzate da coloni greci. E’ altamente probabile che la popolazione indigena abbia appreso proprio dai greci l’arte di conservare la carne di maiale nelle stesse budella dell’animale. Il territorio, con l’eccezione di limitate zone costiere, si presenta estesamente coperto di boschi in cui vagano, sorvegliate da schiavi, diverse specie animali. Tra questi boschi, particolarmente ricchi di specie quercine, il maiale, che per la presenza di setole spesse ed ispide ha l’aspetto del cinghiale, trova condizioni ideali per ingrassare e riprodursi. Le ghiande dei querceti lucani alimentano “morre” (branchi) di maiali che forniscono a buon mercato ai Romani, come tributo, oltre che carne e lardo di qualità anche luganiche. La dipendenza alimentare del maiale dalle querce emerge anche altrove in Europa. Ed è proprio questo legame che spinge le genti europee ad utilizzare il porco come unità di misura dei boschi. La funzione di strumento di valutazione delle superfici forestali non ne ridimensiona però il ruolo sul versante alimentare. Va sottolineato, a questo proposito, che Grimod de la Reynière, uno dei padri della gastronomia francese, all’inizio dell’Ottocento definiva il maiale “animal encyclopédique”. Ciò porta l’immaginario collettivo a vedere ancora oggi nel maiale presente nelle campagne, non solo lucane, una sorta di status symbol di benessere delle famiglie che lo allevano. Questa aspettativa di benessere si manifesta apertamente a Calvello dove il 16 gennaio di ogni anno la popolazione ancora venera, sebbene con riti diversi da quelli del passato, Sant’Antonio Abate, il protettore dei maiali. A testimoniare l’importanza dell’allevamento suino in Basilicata rimangono tanti detti popolari, alcune poesie e numerosi toponomi che richiamano alla mente non solo lo stretto legame tra animale, bosco di querce e tradizioni, ma anche il maiale come fonte insostituibile di provviste alimentari. I nomi di alcuni paesi (Satriano di Lucania, Savoia di Lucania) confermano poi, in maniera inequivocabile, che la luganica menzionata da Varrone è nata da queste parti.
Come si è avuto modo di accennare, la Basilicata, rappresenta una parte, sia pure rilevante, dell’antico territorio lucano. La Regione, che per un breve periodo, sotto il fascismo, aveva ripreso impropriamente l’antico nome di Lucania, è delimitata per circa la metà da territori montani. Va rilevato che l’antico nome è frequentemente utilizzato, anche in spot pubblicitari di successo, come aggettivo. E’ però ormai prassi comune indicare la Basilicata anche con il nome di Lucania. Questa porzione di antica Lucania si estende, in provincia di Potenza, su quasi 500 mila ettari, gran parte dei quali coperti da pascoli e boschi. Sebbene non siano gli stessi boschi del tempo dei Romani, essi rivelano sempre, nonostante i feroci disboscamenti del passato, una grande ricchezza di querce. Fino a qualche decennio addietro questi boschi erano attraversati, nel periodo autunnale, da persone intente a raccogliere ghiande. Oggi l’operazione di raccolta rimane circoscritta alle piante vicine alle abitazioni di campagna.La tradizione di alimentare i maiali con le ghiande resiste negli ambienti in cui l’animale è allevato per l’autoconsumo. In genere le famiglie contadine allevano due o tre maiali di cui una metà è venduta a conoscenti per coprire le spese di gestione. Non mancano però anche allevamenti di certe dimensioni che caratterizzano vere e proprie filiere suinicole. Se si guarda all’allevamento suino senza perdere di vista quelle che sono le consuetudini locali, nella realtà montana della Basilicata è possibile individuare almeno cinque modelli territoriali. Per le loro specificità ambientali, organizzative e produttive essi sono da associare ad altrettanti “distretti del salume lucano”. Il primo distretto ha come centro rappresentativo Picerno; il secondo ruota attorno a Cancellara e Pietragalla; il terzo caratterizza l’Alta Val d’Agri; il quarto ha come punto di riferimento Latronico ed il quinto il Lagonegrese, in cui emerge Rivello come luogo storico di produzione di soppressate. Le cinque realtà produttive individuate appaiono diverse quando si sofferma l’attenzione sui caratteri dei prodotti che si ottengono dalla lavorazione delle carni suine. Quando, invece, l’attenzione si sposta sul significato della presenza del maiale e sul rito della sua uccisione, rito che nel mondo contadino rappresenta tuttora il principale momento di aggregazione sociale della famiglia e del vicinato, le cose sembrano cambiare davvero poco.
Picerno è una piccola comunità della Montagna del Melandro che dista pochi chilometri dal capoluogo di Regione. Va considerato che gli spostamenti sono facilitati dalla presenza nella zona centrale del paese della stazione ferroviaria. Esteso su circa 8 mila ettari esso conta poco più di 6 mila abitanti. La sua storia è legata soprattutto ai moti della sfortunata rivolta del 1799.
Il territorio è in gran parte coltivato a cereali o utilizzato come pascolo da animali allevati allo stato semibrado. I fitti boschi presenti sono stati per tutto l’Ottocento covi di briganti. L’agricoltura è organizzata quasi esclusivamente sul lavoro della famiglia. La base aziendale è di sovente costituita da piccoli fazzoletti di terra ubicati anche a notevole distanza tra loro. Nelle zone più basse i minuscoli appezzamenti ospitano colture ortive di pregio i cui sottoprodotti sono utilizzati, assieme ai residui della cucina, per preparare gustosi pastoni per i maiali. In genere si tratta di aziende che vedono impegnate figure professionali non esclusivamente agricole. La situazione strutturale e produttiva dell’agricoltura di Picerno si ritrova non solo negli altri territori della Montagna del Melandro ma anche nei paesi della Montagna di Avigliano e Muro Lucano. Questi aspetti comuni contribuiscono a delimitare, nella parte occidentale dell’Appennino lucano, ai confini con la Campania, quasi nel cuore dell’antica Lucania, un vasto comprensorio appenninico che si caratterizza per la spinta omogeneità ambientale e sociale. Nel complesso, il comprensorio montano, che quasi per intero ricade nel bacino idrografico del Sele, risulta delimitato dai territori di 19 comuni (fig. 1). La superficie interessata rappresenta, con 115 mila ettari, l’11,5% del territorio della Basilicata. La popolazione censita ammonta a 70 mila unità (tab. 1) corrispondente ad una densità demografica di del tutto uguale a quella regionale (60 abitanti per km2). Il clima della zona è quello tipico dell’Appennino lucano. Ad estati calde e siccitose seguono stagioni con precipitazioni abbondanti che assumono di sovente carattere nevoso nei mesi invernali. Le condizioni climatiche sono ritenute da tutti particolarmente adatte per stagionare salumi.
Nel territorio appenninico considerato la lavorazione della carne di maiale si realizza in sette laboratori artigianali, di cui cinque, i più importanti, sono localizzati a Picerno. Da questi cinque laboratori, che vedono occupate una sessantina di persone, escono non solo salsicce ma anche tanti altri buoni salumi della tradizione lucana. Sulla base delle informazioni raccolte è da ritenere che i 4/5 degli occupati, di cui uno su tre è femmina, è da assegnare alla catena della salsiccia. Sono in molti a ritenere che la presenza femminile sia importante nella fase di confezionamento del prodotto. Merita di essere sottolineato che rispetto agli innumerevoli ingredienti tramandatici da Apicio, la tipica salsiccia di Picerno si ricava impreziosendo un impasto salato di carne e grasso con finocchietto selvatico (Foenicum vulgare) e piccole scaglie di peperoncino dolce o piccante rispettivamente nella misura massima di 1 g e 5 g per kg di prodotto. Il contenuto di grasso difficilmente arriva a superare il 30%. Va rilevato che a Picerno esiste, anche se ristretto, un vero e proprio mercato del finocchietto selvatico. Presente dovunque, è raccolto da persone anziane e venduto ad un prezzo che nel corso del 2004 ha raggiunto 25,00 euro al kg. In relazione alla quantità di grasso che viene utilizzata, la classica salsiccia di Picerno è da catalogare come “magra”. E’, questa, la “salsiccia” per antonomasia. Le varianti sono individuate come “salsiccia grassa”, “pezzente” e “cervellata”. Quest’ultimo insaccato, ancora prodotto con successo a Paterno, nell’Alta Val d’Agri, sembra trovare, per gli ingredienti utilizzati, una sorta di antenato proprio nella luganica di Apicio. Nelle altre realtà distrettuali individuate, alcuni usano speziare la salsiccia anche con l’aglio o, al posto del peperoncino, con pepe nero macinato. A Pietragalla non si usa il peperoncino frantumato ma salsa di peperone. Dalle informazioni acquisite direttamente dai produttori, a Picerno vengono annualmente prodotti, utilizzando carni provenienti prevalentemente dal Nord, non meno di 1,5 milioni di chilogrammi di salsicce stagionate. La versione piccante incide sulla produzione totale per un terzo. Il prezzo medio unitario si aggira attorno a 8,00 euro a kg. Di conseguenza, il valore complessivo si attesta sui 12 milioni di euro. La materia prima utilizzata proviene prevalentemente dall’Emilia Romagna ed è costituita essenzialmente da spalla, sottospalla e rifolatura di prosciutto. Non manca, però, chi utilizza materia prima locale. Il calendario di commercializzazione mostra un picco (40%) tra novembre e dicembre. Significativo è anche il peso (10%) del prodotto commercializzato nel mese di agosto che vede molti emigrati ritornare per le ferie. Per quanto riguarda i luoghi di destinazione, si valuta in oltre il 90% la quota di prodotto che varca i confini regionali. Un trend crescente mostra la domanda estera, attualmente attestata sul 5%. Di rilievo è il dato che vede, con oltre il 90%, il prodotto commercializzato sotto vuoto. La grande distribuzione, che appare sempre più attratta dalle porzioni monouso, assorbe la metà del prodotto.
Qualche considerazione di natura diversa va fatta sulla salsiccia casalinga. Il caratteristico insediamento sparso delle montagne del Melandro e del Marmo Platano favorisce, un po’ dappertutto, l’allevamento tradizionale del maiale. Le fasi che portano alla sua uccisione contemplano il rispetto di regole a cui è difficile sottrarsi. Appaiono particolarmente dure a scomparire il criterio con cui si sceglie la data dell’uccisione, che non deve trovarsi quando la luna è crescente, e la persona da impegnare nell’operazione di scannamento (capofamiglia) e di assaggio del grado di salatura dell’impasto (moglie del capofamiglia). Resta, ma con sempre meno convinzione, il divieto alle donne di manipolare la carne nei giorni di ciclo mestruale. E’ consuetudine scannare il maiale quando ha raggiunto il peso medio di 160 kg. I quantitativi di salsiccia prodotti variano in funzione dei tagli che si utilizzano. Dalle rilevazioni eseguite, risulta che da un maiale dal peso di 160 kg si ottengono mediamente 30 kg di impasto da cui escono le salsicce dalla classica forma ad “U”. Per farle asciugare si appendono al soffitto in locali anneriti dal fumo dei camini. Si può discutere quanto si vuole sulla validità o meno che ha oggi questa tecnica di affinamento del prodotto, ma la salsiccia casalinga della montagna lucana è e resta carne insaccata da mangiare cruda dopo l’essiccazione al fumo del camino. Dopo non meno di 22-25 giorni, le salsicce dalla classica forma ad “U”, che possono arrivare a perdere anche il 1/3 del peso originario, sono tagliate a pezzi e conservate sotto sugna in vasetti di creta. Una parte è conservata, sempre con la sugna, nella vescica del maiale e conservata per essere aperta in occasioni particolari come la mietitura. Nel passato la vescica rappresentava anche un espediente per far arrivare il prodotto nei Paesi che ne vietavano l’importazione. Pochi giorni prima di partire, l’emigrante portava la vescica in un caseificio e la faceva avvolgere con la pasta di caciocavallo fino a farle assumere la forma del latticino semistagionato. Ai controlli doganali la vescica risultava caciocavallo. Il mercato della salsiccia casalinga è comunque notevolmente limitato. Nei pochi casi di vendita del prodotto stagionato, in genere a persone che si conoscono, la quotazione si aggira sui 14 euro a kg. Ne deriva, che il valore delle salsicce stagionate ricavate da un maiale di 160 kg si attesta sui 300,00 euro. Ciò porta a stabilire, sempre sulla base di osservazioni
dirette e informazioni acquisite, che il peso economico delle salsicce si aggira, grosso modo, attorno ad un terzo del valore complessivo dei prodotti ottenuti trasformando un maiale di 160 kg. In termini occupazionali il peso delle salsicce rimane sicuramente esiguo anche se occorre rilevare che si tratta sempre di maestria femminile. In relazione a questo dato, non si va molto lontano dalla realtà se si afferma che le salsicce casalinghe prodotte annualmente nei 19 comuni considerati arrivano a 25 mila kg. Si ritiene, infatti, che mediamente vengano macellati in ambito famigliare un migliaio di capi suini. Il valore complessivo delle salsicce casalinghe dovrebbe, perciò, aggirarsi attorno ai 300 mila euro. Considerando assieme i dati produttivi aziendali e dei laboratori artigianali, compresi i due che non operano a Picerno, si ricava che in questa parte di Lucania antica vengono prodotti mediamente 1,6 milioni di kg di salsiccia (luganiga) l’anno, pari ad un valore commerciale di 13 milioni di euro. Va rilevato che i dati produttivi e commerciali delle macellerie locali non sono da associare alla luganiga in quanto esse operano nel comparto del fresco.
Le osservazioni svolte sulla salsiccia prodotta a Picerno portano a far riflettere. Per intanto appare indiscutibile che la piccola cittadina del Melandro rappresenta, grazie anche alla facilità con cui la gente ha avuto accesso alla ferrovia, un importante centro di produzione dell’insaccato. Se si vuole puntare a tutelare questo luogo occorre, per forza di cose, far riferimento alla salsiccia. Il modo migliore per procedere in questa direzione è quello di individuare misure che garantiscono il consumatore circa l’origine del prodotto. Emerge, pertanto, la necessità di non porre in secondo piano le notizie storiche, che come si è avuto modo di rilevare risalgono ad oltre 2 mila anni fa, fino a trasferirle, adattandole alla realtà attuale della lingua e del mondo della salumeria. In particolare, occorre puntare ad individuare qualche segno distintivo che porti a caratterizzare la salsiccia (la luganica di Varrone) delle montagne del Melandro e del Marmo Platano come “Lucanica di Picerno”. In questo modo si manderebbe anche un messaggio chiaro a quanti continuano (veneti, greci, baschi) a chiamare, sebbene con piccole varianti di pronuncia e di scrittura, la salsiccia “lucanica” senza conoscerne l’origine. E’ del tutto evidente che un’operazione del genere sarebbe notevolmente rafforzata sotto il profilo dell’immagine riconoscendo la zona come “Distretto della salsiccia”. In questo modo i beneficiari non sarebbero solo i laboratori artigianali di Picerno ma anche le numerose famiglie contadine della zona che con le loro salsicce casalinghe si rivelano custodi attenti di antiche e nobili tradizioni.